NOI E LORO | p. 7

Io non credo che siamo tutti pazzi, noi proprietari di cani. Capisco che certe volte, a chi non possiede cani, possiamo sembrare esagerati nelle nostre manifestazioni di affetto o ridicoli o persino offensivi. Per dire: mangiare a tavola accanto al proprio cane, talvolta purtroppo imboccandolo con il cucchiaio, dormirci nel letto abbracciati, portarlo alla spa per un massaggio ayurveda, decorarlo di Swarovski come un albero di Natale, mettergli le scarpine se piove, comprargli i bocconcini firmati dallo chef stellato appaiono anche a me comportamenti da riesaminare.
E ammetto che il monito di Papa Francesco, il cui senso era che ci sono persone che si occupano più dei cani che dei bambini, un qualche fondamento ce l’ha. Ma…Nelle famiglie italiane ci sono sessanta milioni di animali domestici.
Sette milioni sono cani. Qualcosa vorrà dire. Comincerei dalla osservazione sul campo.
Ogni cane assomiglia al suo padrone.

PERDONO | p. 43-44

La cosa che mi colpisce di Byron è che è del tutto indifferente ai meccanismi di potere che invece condizionano e spesso governano le nostre scelte di umani. È come se esistessero, per lui, due mondi paralleli: quello dei suoi simili, dove si esercita allo spasimo la lotta per la supremazia e per il potere, e invece il mondo del cuore, quello dove il cane vive, lui solo, insieme al suo padrone.
Posso fare a Byron qualunque dispetto, magari a fin di bene. Non ci diciamo spesso che facciamo qualcosa di non proprio nobile, ma a fin di bene? Non è la solita storia per cui il genio di Machiavelli alla fine si è ridotto, nel linguaggio comune, alla frasettina “il fine giustifica i mezzi”? E lui nulla.

FIDUCIA | p. 65-66

Byron si era accucciato lungo disteso in un angolino nascosto. Renata gli buttò un occhio addosso. «Morde?» «No. Garantisco.» Sperai con tutte le mie forze che nel guardaroba non
entrasse nessuno che risultasse agli occhi di Byron potenzialmente pericoloso. Le tre signore si guardarono dicendosi mute la stessa frase: “Figuriamoci, è un cane”. Legai Byron con il guinzaglio alla gamba di un tavolo e gli feci il nostro gesto “Aspetta”.
Lui scodinzolò brevemente. Ringraziai e uscii. Il convegno durò tutto il giorno, ci fu una colazione di lavoro e dopo le relazioni e la discussione ripresero fino alle sette e mezzo di sera. Quando ritornai affannata al guardaroba, era sera ed ero pronta al peggio. Sicché svoltai l’angolo del corridoio con il cuore in gola. E trovai un idillio.
Byron si aggirava senza guinzaglio tra le gambe di un gruppetto di ammiratori e ammiratrici, capeggiati dalle tre guardarobiere che, pur avendo da un bel po’ finito il turno, erano rimaste lì. Mi venne incontro senza abbaiare, e senza agitarsi. Un saluto svelto, e si accucciò subito ai miei piedi. E io, che mi aspettavo una reprimenda, ricevetti invece una pioggia di elogi e di complimenti.
Byron non aveva abbaiato nemmeno una volta, non aveva fatto nessuna pipì. Si era, invece, sistemato tranquillo nel suo angolino, guardando con attenzione quello che accadeva intorno. Dopo un paio d’ore, le signore del guardaroba avevano deciso che era, sì, un cane, ma davvero molto educato. Una gli aveva procurato una ciotola d’acqua fresca, un’altra si era azzardata in una carezza.
A metà pomeriggio erano così sicure di lui che l’avevano slegato. «Non è scappato, sa? Pensavamo che sarebbe venuto a cercare la padrona…E invece non si è proprio mosso!»
Si era fidato di me. Era certo che sarei tornata da lui.
E allora mi domando se questa meravigliosa fiducia non sia una lezione da imparare. Se non sia più semplice lasciar andare via l’angoscia di essere abbandonati e credere che chi ci ama ritornerà.

IMITAZIONE | p. 81

Byron cominciò a imitare Schubert.
Se Schubert abbaiava, Byron abbaiava. Se Schubert andava a cuccia, Byron lo seguiva. Qualunque attività intraprendesse, qualunque decisione mettesse in pratica il maturo maestro, l’allievo, il giovane Byron, lo ripeteva.
Insieme, Schubert e Byron venivano per esempio alla Messa della domenica e stavano in rispettoso silenzio accucciati uno accanto all’altro, in un angolo verso il fondo della chiesa. Se io li avvisavo che sarei andata a fare la Comunione e facevo il gesto “Torno”, entrambi restavano buoni e quieti, benché non più sorvegliati da me. Per un cucciolo è una prova straordinaria.
Se Schubert decideva che un passante era pericoloso o un altro cane andava rimesso al suo posto e cominciava a scatenare la sua abbaiata più feroce, Byron, con la sua vocetta ancora stridula, gli andava dietro, sforzandosi di fare del suo meglio.
Byron rispettava la primogenitura di Schubert e ne riconosceva l’autorità. Mangiava per secondo. Saliva per secondo in macchina. Camminava dietro a Schubert in passeggiata. Aspettava paziente che noi finissimo di coccolare Schubert per muovere debolmente la sua coda sollecitando la nostra attenzione. Gli trotterellava dietro a rispettosa distanza. Ne spiava i comportamenti ed era divertentissimo osservarlo mentre lo sbirciava un po’ di traverso, come facciamo noi umani.
Imparava da Schubert come comportarsi.

MALINCONIA | p. 114-115

Byron soffre di malinconia.
Non la combatte, vi si adegua. Vive la malinconia come uno stato di fatto. Può capitare che, pur davanti a una ineffabile distesa di erba verde e cacche di mucca disseminate come premi qua e là, resti accucciato, con la testa fra le zampe e lo sguardo fisso a terra.
Può capitare che la pappa non desti il suo neppur minimo interesse. Nemmeno un pezzo di parmigiano. Nemmeno un ciondolo grassottello di carne rossa.
Può capitare che qualcuno suoni insistentemente il campanello di casa, attività altrui che normalmente scatena il suo senso del dovere e una canizza a volume esagerato, volta a terrorizzare l’aspirante intruso. E invece Byron resti quieto nella sua cuccia. Acciambellato dentro la sua tristezza.
La causa della sua malinconia canina è sempre evidente. E sempre la stessa. Io non ci sono. D’accordo, ho avvisato che sarei tornata, e lui ci crede. Ma, fintanto che non lo faccio, il suo cuore soffre. E la vita gli appare priva di elementi degni della sua attenzione.
Morire, dormire… nient’altro, e con un sonno dire che poniamo fine al dolore del cuore e ai mille tumulti naturali di cui è erede la carne: è una conclusione da desiderarsi devotamente. Morire, dormire. Dormire, forse sognare.
Cosa sognerà, Byron? Riesce, senza lo psicoanalista, a curarsi con i sogni la malinconia?
Dicono che i cani sognino, che il loro cervello possieda un sistema limbico simile al nostro. Ma non mi importa molto se sia vero e perché. Mi importa invece capire come riesce, Byron, a curarsi della sua malinconia. L’Amleto non può scriverlo. Eppure, a un certo momento, e senza ragione apparente, la malinconia lo abbandona.
Sarà una moschina fastidiosa quella che insegue gironzolando con la coda che pennella l’aria, dopo giorni di cuccia solitaria?
O sarà il modo in cui si sta curando da sé?
La cosa intrigante è che la malinconia di Byron svanisce senza preavviso e soprattutto senza che il dato che l’ha procurata sia cambiato. E senza psicofarmaci, ovvio.
E allora?
Mi viene in mente una ipotesi fantasiosa, che rasenta il ridicolo. Ma se funzionasse?
Mi viene in mente che il mio bassotto Byron sia capace di produrre dentro il suo animo un mondo ideale. Che possa farlo applicando quello che noi umani chiamiamo “come se”. E se agisse “come se” io fossi tornata, pur sapendo che al momento è ancora solo?
E se, applicando il “come se” alle nostre giornate tristi, la tristezza svanisse e volasse via, come la moschina che Byron insegue e che, a ben guardare, non c’è?

SCEGLIERE | p. 151-152

Byron è impermeabile alle lusinghe.
Si ricorda, direi che si stampa in testa, la fotografia di chi gli ha dato un biscotto, per esempio la profumiera, la parrucchiera, la commessa del negozio di accessori per cani. Quando lo rivede, saluta con il necessario e comprensibile trasporto. Ma se costoro, per esempio, desiderano trattenerlo mentre io mi allontano, potrebbero mettergli accanto il suo peso in yogurt e grana, ma non riuscirebbero a trattenerlo.
A questa capacità decisionale, il bassotto aggiunge il sentimento nobilissimo che la retorica (soprattutto televisiva, immediato detonatore dell’applauso in studio) sintetizza nella frasetta ai miei occhi insopportabile “L’amore si moltiplica non si divide”.
Sicché, il bassotto continuerà ad amare anche chi ha lasciato ma con moderazione e saprà assegnargli nel suo pantheon degli affetti un posto, ma defilato.
Sarà carino e gentile, rispetterà le regole sociali della buona educazione, ma non metterà mai in discussione la sua scelta.
Se anche noi umani applicassimo queste abilità alle nostre relazioni (sono capace di scegliere, la lusinga non mi manipola), penso che molti pranzi di Natale migliorerebbero radicalmente.