PERCHÈ HA SCRITTO QUESTO ROMANZO?
Perché era come un bambino che voleva uscire. C’era questa storia e voleva essere raccontata. Bussava continuamente. Ho dovuto aprire.

CHE COSA RACCONTA?
Racconta il momento perfetto in cui tutto è davvero possibile.

PERCHÉ I LETTORI DEVONO COMPRARE QUESTO LIBRO?
Per vivere una travolgente stagione di dolcezza e di passione nell’Italia affacciata sul boom.

QUANDO SI È ACCORTA CHE IL ROMANZO FUNZIONAVA?
Quando ho cominciato a sorridere e a piangere e a emozionarmi mentre lo scrivevo. Volevo vedere come andava a finire. Sono sicura che lo stesso capiterà ai lettori.

LEGGI L’ESTRATTO »

Ho detto alla mamma che quel costume non me lo mettevo.
No, proprio no, con quella specie di gonnellino che sale sempre su e bisogna aggiustarselo in continuazione, sennò si vede l’attaccatura delle cosce, e non é una bella cosa. Però adesso mi sentirei meglio, se ce l’avessi. Questo costume nero mi fa sentire talmente vecchia.Ha perfino le maniche. Corte, ma ci sono.
La ragazza seduta al tavolino davanti al bar è bellissima. Ha una gonna larga, di un color arancio che spezza gli occhi. Sulla gonna ci sono disegnati, no, forse ricamati, come dei pesci, delle righe nere larghe, dei pallini. Mi fa venire in mente i pesci di Picasso. Madre Marchetti sarebbe contenta, se sapesse che ancora mi ricordo qualcosa dei pesci di Picasso, non era vero che non stavo mai attenta e pensavo solo ai vestiti.
La ragazza seduta al tavolino del bar ha anche dei sandali. Neri. Infradito. Il laccetto sale fino alla caviglia, lei l’ha girato due o tre volte, a fare come un segno nero che dice «Guardami». Lo so perché, con la scusa della granita, sono passata due volte davanti al tavolino: la prima per prenderla, la seconda per portarla sotto la nostra tenda; anche se Vito ha detto, tutto cerimonioso, «Ma signorina Berti, cosa fa». Io l’ho fatto lo stesso.
Passando, ho guardato anche i due ragazzi. Uno beveva un liquido rosso vivo, da un bicchiere alto, di vetro. Per questo, il viso non l’ho visto bene.
L’altro stava tutto chinato sul tavolino, come se volesse toccare la ragazza con la gonna arancione. Di profilo sembrava un uccello, un naso grosso, lungo, leggermente ricurvo. Come un becco. Ma forse era la posizione, la luce. Magari non ce l’ha, il naso a becco. Ho visto la maglietta bianca, i peli delle gambe nude, anche le scarpe: espadrilles. Le portava infilate di punta, con il tallone che schiaccia la parte dietro, a ciabatta, direbbe la mamma. Lei non vorrebbe che io portassi le espadrilles così e comunque io non ho espadrilles, e neanche sandali infradito che si allacciano alla caviglia, se è per questo. Forse me li compro. Papà ha detto che, per questa estate, possiamo fare anche spese pazze.
Sentivo la tela della sdraio che mi grattava la schiena, questo bruttissimo costume ha lo scollo dietro, la sabbia mi graffiava il collo e anche le spalle. Ho capito che si era attaccata la sabbia alla crema da sole, era come una grattugia.
Mi sono dovuta alzare.
Ecco, alzarsi, su questa spiaggia color oro chiaro, in mezzo a queste tende con il telone verde che sembrano scatole in fila, non è una cosa facile e mi tremavano un po’ le gambe. Pensavo: adesso mi guardano tutti. Ma poi mi sono accorta che non mi guardava nessuno. Ho scosso via la sabbia con la mano destra e intanto cercavo di avere un contegno, almeno di tenere la schiena diritta. I capelli mi sono andati sugli occhi, si sono appiccicati alla crema che mi ero messa sul viso.
La ragazza che stava distesa sul lettino alla tenda accanto alla nostra ha girato la testa. Ha socchiuso gli occhi, come se il rumore che avevo fatto, alzarmi e poi la stoffa della sdraio che è ricaduta giù con un plof e poi il grattare della sabbia e il mio respiro, l’avessero disturbata molto. Mi ha guardato.
Io ho girato subito la testa dall’altra parte. Mi vergognavo da morire. Così, il viso non l’ho visto. Mi è rimasta impressa solo la sensazione del suo sguardo, come una pigrizia sospesa.
Dopo un po’ mi sono rimessa a sedere sulla sdraio a righe verdi e bianche e non è che la situazione fosse cambiata di molto. Avevo ancora sabbia sulla schiena, mescolata alla crema e un prurito pazzesco, ma cercavo di non grattarmi, e comunque non mi sarei rimessa in piedi neanche per tutto l’oro del mondo. Diomira dice sempre «per tutto l’oro del mondo», ma la mamma non vuole che io lo dica. Io lo dico lo stesso. A me piace. Mi piace l’oro del mondo. E penso che in qualche modo ci sia, da qualche parte, l’oro del mondo. Che sia lì, una montagna tutta splendente e dentro ci puoi entrare perchè è morbida e toccare tutto e diventare d’oro, sentirsi tutta luccicante e viva, a capofitto in quella polvere meravigliosa. L’oro ti entrerebbe nella pelle e saresti lucente come un braccialetto.
Però la ragazza della tenda accanto mi interessava veramente. Era come se mi arrivasse una specie di brivido, una vibrazione, era irresistibile, bellissimo. Allora, ho girato di nuovo la testa. Tenevo gli occhi semichiusi, mi sembrava più sicuro.
E così la prima cosa che ho visto è stata l’asciugamano.
Ah, quello. Ora ho capito perchè su questa spiaggia di scatole verdi tutte le sdraio e tutti i lettini hanno asciugamani sopra. E ogni tenda ha i suoi, di un colore speciale, come se la tenda fosse una casa. Solo la nostra tenda non ha gli asciugamani, perchè è il primo giorno che veniamo al Gemma. È per la sabbia. E per la crema.
L’asciugamano della ragazza della tenda accanto è rosa, un rosa brillante, come il rosa delle culle delle bambine ma più vivo. Un rosa che viene voglia di stare a guardarlo per un sacco di tempo. L’asciugamano arriva quasi fino all’orlo della sabbia e sul bordo c’è una passamaneria bianca, di cotone, a cerchietti. È veramente un asciugamano grazioso. Ho alzato appena le ciglia, aperto le palpebre a metà.
Ho visto le gambe della ragazza.
Ha dei piccoli piedi bellissimi, e unghie con smalto rosa, in sfumatura con l’asciugamano, ma forse è un caso, non è possibile che ci abbia pensato. O forse ci ha pensato. Vorrei avere i suoi piedi. La gamba sale verso l’alto come una linea di pittura su un foglio. Ho visto l’incavo dietro al ginocchio, e mi è venuta voglia di passarci dentro il dito, ma leggero. Poi la coscia. Color oro scuro.
Ho aperto le palpebre un po’ di più e intanto facevo salire lo sguardo. La pancia. Una pancia piatta. Ha l’ombelico leggermente rientrato, come un bottoncino a cui suonare per farsi aprire. Le ossa dello sterno. Il petto si alza e si abbassa in un modo impercettibile. È come se avesse il mare dentro, una piccola onda che si frange e si rifrange. L’orlo del due pezzi. Gros grain color giallo vivo. Deve essere di cotone, ci sono rametti di fiori stampati, sembra mimosa. O solo pallini gialli. La luce di questa spiaggia mi acceca un pochino, o forse è l’emozione. Il seno sboccia dalla coppa del reggiseno come un fiore di carne. È alto eppure morbido, deve essere di velluto, a toccarlo. È tondo, perfettamente rotondo. Precipita giù, verso il collo. Il collo ha due brutte pieghe, separano la luce dall’ombra. Le spalle stanno appoggiate al bordo del cuscino.
Un cuscino di spugna rosso, con larghi bolli bianchi uniti da righe nere, come la molecola dell’atomo che ci spiegava suor Gaetana. La bocca. Un ricciolo chiaro schiacciato dalla guancia tonda. Narici. Due pieghe infinitesime proprio tra l’orlo del labbro superiore e il bordo di burro del naso. Vorrei avere quel naso. E poi chiudo gli occhi di scatto. La bocca mi si tira in un mezzo sorriso fasullo, un riflesso condizionato di sorriso.
La ragazza della tenda accanto guarda me.
Per questo ha le pieghe d’ombra sull’oro tiepido del collo. Ha girato la testa. Solo la testa. Come una sfinge viva.
Ho raccolto le spalle dentro l’infossatura della sdraio, appoggiato la mano sul braccio teso, mi sembrava che fosse il modo migliore per sembrare naturale.
Lei mi guardava.
L’ho visto con la coda dell’occhio, perché non sapevo cosa fare e allora tenevo il viso girato verso il mare. Il mare era calmissimo, la superficie tesa come uno specchio di latte. Ci camminavano dentro, con i piedi a metà nell’acqua, due signore anziane, con larghi prendisole scuri e grandi cappelli di paglia. Vedevo le gambe biancastre, le vene grosse che si attorcigliavano come serpi. E macchie rosse e pelle come staccata che dondolava tra le cosce. Ho avuto paura. Di nuovo, ho girato la testa verso la ragazza della tenda accanto.
Non mi guardava più. Eppure era rimasto nell’aria il suo sguardo: sensazione di fresco e di caldo e morbidezza, e forza. Una forza irresistibile e beata.
Dopo un po’ mi sono alzata. Sono tornata nel bar.
Il bar è una casetta bianca, ha le finestre molto piccole con le persiane verde vivo. Accanto alla porta dove si entra in casa, una finestra è stata allargata e dentro c’è come un bancone e bottiglie dietro, piene di polvere. Davanti al bar, appoggiata alla colonna che regge la tenda, c’è la vetrina dei gelati Motta. E accanto il jukebox. Non mi andava di prendere un’altra granita, comunque dopo volevo fare il bagno in quest’acqua così trasparente che ci si vedono i piedi. La mamma dice che bisogna aspettare tre ore, dopo aver mangiato qualunque cosa, prima di entrare nell’acqua, sennò ti senti male, ti viene la congestione e deve correre il polmone d’acciaio, che non in tutte le spiagge ce l’hanno. Per esempio, a Gabicce, dove siamo sempre andati noi, il polmone d’acciaio non c’era e ho visto un signore sulla spiaggia che sembrava morto, riportato a riva dal bagnino bocconi sulla punta di legno del patino, una macchia morta sul patino rosso. E le persone della spiaggia stavano lì, sulla riva, a aspettare come uno spettacolo.
Mi sono avvicinata al juke-box e ho buttato uno sguardo veloce sulla lista delle canzoni. Erano scritte a biro, molto in piccolo, senza chinarsi non si vedeva nulla. Mi sono appoggiata leggermente al vetro e facevo scorrere il dito sui cartoncini bianchi con i titoli e il numero da fare per suonare il disco. Poi mi sono ricordata che non avevo le cinquanta lire e mi sono vergognata moltissimo. Ho cercato di allontanarmi dal juke-box nel modo meno vistoso possibile, ho fatto un passo indietro. E dietro c’era il ragazzo con il naso da uccello.
Buco nel petto. Piedi molli dentro gli zoccoli rossi. Il ragazzo con il naso da uccello ha fatto un piccolo scarto, si è riposizionato esattamente davanti al juke-box. Dalla tasca di dietro dei pantaloni corti ha tirato fuori una moneta, l’ha infilata nella fenditura. Il juke-box si è illuminato come un altare. Il ragazzo con il naso da uccello ha mosso la mano con calma, pigiato qualcuno dei tasti accesi. Poi si è girato. È tornato verso il tavolino di legno dove lo aspettavano la ragazza con la gonna con i pesci e il ragazzo che beveva la bibita rossa. Adesso aveva appoggiato il bicchiere davanti al viso, ci guardava attraverso e faceva smorfie. Io sono rimasta in piedi accanto al juke-box e Fred Buscaglione ha cominciato a cantare «Guarda che luna guarda che mare da questa sera senza te dovrò restare». Sono diventata tutta rossa. Il cuore mi batteva come uno stantuffo dentro il mio stupido costume di lastex nero. La ragazza con la gonna con i pesci si è messa a ridere e si è alzata. Ha sfiorato la mano del ragazzo con il naso da uccello, ha teso il braccio, piegato leggermente una gamba. Il ragazzo con il naso da uccello si è impossessato della sua mano, aveva occhi da padrone. Ha fatto allontanare con un gesto veloce del braccio la ragazza, tendendola come un elastico. Poi l’ha riagguantata, se l’è buttata addosso. Hanno ballato per qualche secondo; per qualche minuto. Io guardavo come una bambina al cinema.
Nessuno guardava me.
Per fortuna è arrivata Maia, la moglie di Vito e ha detto «A quest’ora, il grammofono non è permesso» e ha staccato la spina del juke-box con un gesto senza appello. Il ragazzo che beveva e guardava attraverso il rosso della bibita si è appoggiato il bicchiere sopra la testa e si è alzato spostando la sedia di legno con un gesto brusco. Poi è andato vicino a Maia e ha cominciato a muovere il sedere e con il braccio libero le ha allacciato la vita, che non si vedeva molto bene sotto la vestaglietta a fiori azzurri, e si è messo a cantare «Guarda che luna guarda che mare…». E intanto la faceva ballare. Maia ha fatto una specie di broncio, ma si capiva che era completamente in balia di quel braccio, di quel modo strafottente e irresistibile. Il ragazzo con il naso da uccello si è avvicinato al juke-box e ha riattaccato la spina. La bagnina si è liberata dall’abbraccio, ha fatto un gesto come per dire «Con questi qui, non c’è nulla da fare». È sparita nella cucina di casa sua. L’odore del cacciucco riempiva la tenda come cotone. Fred Buscaglione ha continuato a cantare. Io sono tornata giù, alla mia sdraio. Ho pensato che non ce l’avrei mai fatta.
Erano troppo belli, per me.

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